Nel luglio del 2008, fuori da un locale nei pressi di Fortezza da Basso, zona fiere di Firenze, si consuma uno stupro collettivo: 6 contro una. A farne le spese, una ragazza di 22 anni, che immediatamente si reca in un centro antiviolenza, e da lì scatta la denuncia. Lei era molto ubriaca, aveva fiducia degli uomini con cui si accompagnava, che riteneva amici. Non aveva capito che per gli altri 6 la violenza aveva la ragion d’essere nel fatto che lei era considerata una tipa facile, con cui “ci si può combinare qualcosa”.
Succede che letteralmente si ribaltano i
termini del processo: la vittima mano a
mano diviene l’imputata, e gli imputati degli sprovveduti che passavano di lì
per caso. Quello che atterrisce è che, a uno stupro che pretende le sue
ragioni nel fatto che la vittima fosse una ragazza facile che non aveva motivi
per non acconsentire [non è qualcosa che
andava fatto, dato che il suo “confuso orientamento sessuale” e la sua
promiscuità sono comportamenti da correggere?], nei mesi e negli anni sono
corrisposti sempre più un processo e una sentenza che ne sono uno specchio
inquietante.
Tribunali che si pregiano di lavorare per ricostruire i fatti in maniera obiettiva, ripulendo
la ricostruzione giudiziaria da qualsiasi giudizio o interpretazione
soggettiva, al fine di ottenere eque rappresentazioni degli eventi e
giustizia per le parti, ricostruiscono la vita della “parte lesa” in una
minuzia di particolari che lascia a dir poco perplesse. A un Tribunale che deve
stabilire in che termini si è consumata una violenza, se è possibile stabilire
con certezza se ci sia stato o meno consenso attivo della vittima, cosa
importa che la giovane donna aveva avuto precedentemente una relazione
omosessuale, che da poco aveva interrotto una relazione e ne aveva
intrapresa un’altra? Che cosa importa che una teste riporti che la
ragazza indossava slip rossi e minigonna quella sera? Che non è rimasta a casa, pur avendo la “scusa” che il suo compagno era
malato. [Perché non sei rimasta ad accudirlo? Avevi una scusa
buona per rimanere a casa quella sera. Perché sei uscita indossando biancheria
rossa? Non lo sai che è un chiaro messaggio per gli uomini, un tacito consenso?
Perché hai avuto così tante relazioni? E per di più con una donna? Cosa ti
aspettavi? Cosa pretendi adesso?]
La sentenza ha seguito l’interpretazione
accusatoria della difesa degli stupratori: ha costruito, con ricchezza di
particolari e con aggettivi molto espliciti (per chi avesse la pazienza e lo
stomaco, la sentenza la potete trovare qui, nel blog abbattoimuri) il “carattere
disinibito ed eccentrico di lei, volto ad attirare l’attenzione degli uomini”.
Dall’altra parte della linea di accusa [Chi accusa chi? Ormai è difficile
comprenderlo] troviamo i 6 uomini, degli innocenti che hanno partecipato a
una serata di “sesso collettivo”, a cui hanno preso parte cedendo “all’istinto
in un momento di superficialità”, riaccompagnando poi la ragazza alla propria
bicicletta (i virgolettati sono estrapolati dalla sentenza). Siamo alle
solite: la donna è la puttana, l’abile stratega che seduce degli sprovveduti, dei
superficiali che inconsapevolmente cadono preda dell’istinto. Come è stato
nel 1979, e il processo per stupro non era chiaro chi lo stesse subendo. Come
quando un giudice decide che un paio di jeans proteggono da una violenza e
quindi se indossavi dei jeans, sicuro c’era stato consenso… [Si sa, le donne
prima dicono di sì e poi si fanno indietro…]. Abbiamo di fronte a noi una applicazione della legge che mette i
brividi: tale e tanta è l’adesione a un senso comune moralizzante, deprimente e
oppressivo nei confronti delle donne. Oggi come ieri.
Questa giovane donna non ha semplicemente
subito uno stupro nel luglio del 2008. Ha continuato a subire la violenza di
istituzioni che non sono state in grado di difenderla, perché sono istituzioni
che non tengono alla libertà delle donne, che dell’autodeterminazione e il
diritto a vivere la città in modo sicuro non se ne fanno niente. La violenza
così diviene tripla: lo stupro subito, lo stupro delle istituzioni che
condannano la donna stuprata e l'istituzionalizzazione dello stupro come forma
di controllo delle donne ribelli e libere. Ma
oggi come ieri la reazione è stata immediata: in internet e per strada, numerose
manifestazioni hanno protestato contro questa sentenza, e hanno lanciato un
messaggio di solidarietà e di sorellanza a lei che in prima persona sta vivendo
questa sofferenza. Perché se “toccano una toccano tutte” recita un hashtag su
facebook e tweeter, e “la libertà è la fortezza” che ognuna rivendica per sé e
per tutte le altre.
Di lei sappiamo molte cose: dalla lettera
che ha inviato al blog abbattoimuri.org all’indomani della sentenza definitiva leggiamo che
è una femminista, che fa attivismo lgbt. Che è una artista, un’attrice e
performer di body art. Veniamo a sapere che è bisessuale. Sappiamo molto di
lei, è una ragazza coraggiosa e sa che mettere in parole quello che è successo
la aiuterà a non affogare in questo incubo; sa che le sue parole aiuteranno tante
e tanti a capire, ad affrontare la violenza. Ma perché sappiamo così tanto di lei, e niente, assolutamente niente
dei suoi aggressori? Oggi, come 20, 30, 40 anni fa è la donna che subisce
violenza a dover spiegare cosa è accaduto, a dover chiedere e urlare le ragioni
della propria inviolabilità e libertà. Non una parola da chi l’ha
aggradita, nessuna giustificazione sulle proprie abitudini sessuali, sul
lavoro, le passioni, sui vizi di chi ha tenuto una ragazza in scacco per una
notte: su di loro, non c’è niente che valga la pena di sapere.
È
spiazzante vedere ogni volta, quando si tratta di violenza come quando si
tratta di diritti – diritti alla salute, di pieno accesso alla cittadinanza, e
qui parliamo di donne, di persone lesbiche, gay e trans, di migranti – che il privato di chi rivendica libertà,
autodeterminazione e diritti è a disposizione della pubblica piazza.
Niente può essere tenuto per sé: rivendicare giustizia per una violenza subita,
rivendicare il diritto a una vita migliore e degna, avviene pagando il prezzo
della totale visibilità pubblica, a dispetto del riserbo, a dispetto del dolore.
Senza se e senza ma: per rivendicare, devi difenderti. Un’ulteriore violenza,
agita nel nome della violazione del tacito assenso alla violenza subita.