di Massimo Prearo
Roma, Sabato 20 giugno 2015. Arrivo in piazza San Giovanni al fianco di un gruppo
dall’accento veneto, guidati da una capofila che sventola con orgoglio la bandiera raffigurante
la madonna di Medjugorje, preoccupati di essere in ritardo e di perdersi il meglio della
manifestazione, ma rassicurati da un saggio papà – “tanto c’è poco da ascoltare, l’importante è
far numero”. Riconosco da lontano la voce di Massimo Gandolfini, portavoce del Comitato
organizzatore “Difendiamo i nostri figli”, che tuona dall’altoparlante con spirito
autocompiaciuto, e mi ritrovo infine in mezzo a una massa ordinata e organizzata di
#nogender.
Bandiere della Manif pour tous (rosa per le femminucce, azzurre per i maschietti, ça va sans
dire), cartelli per dire “no” all’aborto, al divorzio, alle convivenze e all’eutanasia perché
“l’Europa senza dio non ha futuro”, ma anche “no al mercato dei bambini”, per gridare
“mamma e papà, aiuto!” o “le nostre differenze non si cancellano”, per dire “no al DDL Cirinnà,
no al DDL Scalfarotto, no al DDL Fedeli”; insomma una manifestazione che per celebrare la
famiglia “naturale” si pone contro tutto ciò che nella complessa e continua trasformazione
della società ridefinisce i confini stessi della famiglia e delle identità.
“Noi non siamo contro i gay”, insistono dal palco. In effetti, come da catechismo della Chiesa
cattolica, le persone omosessuali non dovrebbero essere biasimate per la loro condizione
“oggettivamente disordinata”, è la loro omosessualità viziosa che deve essere ostacolata,
condannata, repressa e riparata, ed è la loro pretesa a essere riconosciuti come cittadini
uguali che hanno il diritto di avere diritti che non può essere accolta.
Certi discorsi del
clericato e del laicato cattolico sono particolarmente noti per giocare sulle ambiguità
retoriche, per lanciare anatemi travestiti da carità cristiana, o per condannare i peccati ma
non i peccatori. Cioè dire “non siamo contro i gay”, siamo contro tutto ciò che i gay sono, fanno
e rappresentano.
È un gioco sulla forma che non deve trarre in inganno: la sostanza è che questi eventi e questi
discorsi alimentano, fomentano e legittimano, di fatto, un sistema complesso di idee,
stereotipi, pregiudizi e rappresentazioni negative dell’omosessualità, della bisessualità, della
transessualità e dell’intersessualità.
Il Family Day è stato il momento culminante di almeno due anni di intensa mobilitazione anti-
gender, e non è affatto, come vanta il Comitato promotore, un evento improvvisato che in sole
due settimane è riuscito a smuovere circa 400.000 persone (secondo i dati ufficiali del
Viminale che contesta la cifra mirabolante, assurda e matematicamente impossibile di un
milione di presenze, annunciata dal palco), appoggiandosi sulla capacità logistica delle
parrocchie, abituate a organizzare pellegrinaggi e road trip vari e sulla determinazione delle
comunità neocatecumenali, perché è “veramente cosa buona e giusta” testimoniare la propria
fede in occasione di queste grandi messe pubbliche.
Vista dall’interno la manifestazione assomiglia più a un grande pic-nic della domenica in
famiglia in stile religiosamente serioso. Moltissime famiglie numerose accampate su tappeti,
stuoie e teli da mare, nonne e zie che sonnecchiano su seggiolini da campeggio e che neanche
il rumoroso NOOOOOOOO in risposta alle domande di Adinolfi “volete i matrimoni gay?”,
“volete le adozioni gay?”, riesce a svegliare, bambini che giocano con le bandierine della Manif
pour tous e che si arrampicano sulle gambe di babbo, mamme che si preoccupano di bagnare
le testoline calde dei piccolissimi che nelle culle paiono friggere e distribuiscono
metodicamente panini e merendine, adolescenti che girano a piedi nudi come fossero sul
bagnasciuga e non sul caldo e sudicio pavé romano, nonni che sfoggiano magliette con scritte
quasi illeggibili “nonno di 7 maschi”. Il tutto diligentemente perimetrato da giovani ragazze e
ragazzi dello staff che, investiti di una grande responsabilità, si divertono con giochetti e
scherzetti come fossero alla festa dell’oratorio.
La piazza è silenziosa, quasi svogliata, sorridente ma annoiata. Sul palco si susseguono gli
interventi ripetitivi dei vari ideologi del “no gender”: Amato, dei Giuristi per la Vita, Costanza
Miriano (moglie e mamma anzitutto precisa Gandolfini), Adinolfi e, dulcis in fundo, padre Kiko
Arguello, iniziatore del cammino neocatecumenale, a cui il Comitato lascia volentieri per circa
45 minuti la parola, per una predica delirante che va dall’invocazione della croce per
sostenere la missione anti-gender alla giustificazione del femminicidio come conseguenza
inevitabile a cui un uomo abbandonato da sua moglie non può che arrivare, prima che il
diluvio universale abbattutosi di nuovo su Roma lo obblighi a tagliar corto.
Discorsi fatti e rifatti, e soprattutto falsi e strafalsi: l’ideologia del gender vuole cancellare la
differenza tra uomini e donne, secondo la teoria (mai scritta da nessun autore)
dell’indifferentismo sessuale, prevede corsi di masturbazione infantile nelle scuole e arresti di
massa per tutti coloro che oseranno dire che sono contro i matrimoni gay, perché il “gender” è
nientepopodimenoche la nuova ideologia totalitaria dopo il nazismo e il comunismo.
Come sottolineato da numerosi studi sui movimenti conservatori e sulle mobilitazioni delle
destre, i partecipanti a questo tipo di eventi non sono soliti scendere in piazza, e generalmente
non protestano contro i tagli alla sanità, contro la precarizzazione del lavoro o contro lo
smantellamento dello stato sociale. Quando si mobilita, il popolo della reazione cattolica lo fa
per esprimere l’alleanza al progetto divino (vaticano) di mantenere il controllo sulle
questione “sensibili” di cui sopra e per esperire nel qui ed ora dell’evento la sottomissione alla
parola indiscussa del leader carismatico di turno (tant’è che è stata data chiara indicazione di
non rilasciare alcuna intervista), poco importa se non si capisce bene cosa voglia dire
“gender”, l’importante è che la massa si appropri di questa parola chiave per portare avanti
una strategia politica di cui essa sa di essere la mano ma non la mente.
Il Family Day ha chiaramente messo in luce e esposto alle telecamere e alla stampa di tutta
Italia l’esistenza di una nuova crociata morale animata da gruppi integralisti che usano gli
strumenti della violenza simbolica (l’odio, la paura, la teoria del complotto, l’intimidazione)
per mantenere il controllo sulla folla dei fedeli consenzienti, per fare pressione sulla classe
politica e per continuare a denunciare quel nemico che per il solo fatto di essere diverso
rappresenta un grave pericolo.
In questa giornata particolare, ho preso appunti sul mio taccuino accerchiato da migliaia di
persone e, dal modo in cui sono stato squadrato, ho temuto di essere additato come il nemico;
ho tremato al grido di quel “no” ai matrimoni gay, perché quel boato portava con sé la
violenza dell’omofobia ordinaria che non osa dire il suo nome; ho sentito quello stesso
sentimento di angoscia e di oppressione che si prova alla vista dei raduni imperiali in cui le
folle si muovono come burattini manipolati da cupi individui.
Ho osservato schiere di famiglie aderire ciecamente all’ideologia del no gender, e ho visto una
massa inquietante di persone che hanno smesso, se mai hanno iniziato, di pensare a quello
che fanno.
Massimo Prearo